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DISONESTO QUANTO BASTA PER RESTARE ONESTO. NON CERCO SESSO NE AVVENTURE. SOLO AMICIZIA.

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    quel pomeriggio di un giorno da cani

                       A DUE PASSI DA CASA NOSTRA

    In televisione si parla per mesi di un omicidio, solo perché avviene nel nostro paese e molto spesso si tralasciano omicidi di massa solo perché invece avvengono in paesi molto lontani da noi .Finché ci sarà la totale indifferenza dei mass media nei confronti di queste stragi, non si potrà mai portare il mondo a ragionare, a riflettere perché si eviti che queste cose accadano di nuovo». <<  Marco Tomasin >>

                                 GENOCIDI DEL XX SECOLO

    1. GENOCIDIO DEL POPOLO ARMENO

    I "Giovani Turchi" (ufficiali nazionalisti dell'Impero ottomano) ordinarono tra il 1915 e il 1923 vasti massacri contro la popolazione armena cristiana. Le successive deportazioni di massa porteranno il numero delle vittime a un milione e mezzo circa.

    2. GENOCIDIO DEI POPOLI DELLA CINA

    Nell'anno 1900, la rivolta dei "Boxer" causò oltre 30 mila morti, in gran parte cristiani. E sono almeno 48 milioni i cinesi caduti sotto il regime di Mao tra il "Grande salto in avanti", le purghe, la rivoluzione culturale e i campi di lavoro forzato, dal 1949 al 1975

    3. GENOCIDIO DEI POPOLI DELLA RUSSIA

    Non meno di 20 milioni i russi eliminati durante gli anni del terrore comunista di Stalin (1924/1953). Esecuzioni di controrivoluzionari e di prigionieri, vittime del gulag o della fame.

    4. GENOCIDIO DEL POPOLO EBRAICO

    Con l'avvento del nazismo di Hitler in Germania (1933/1945) viene avviato lo sterminio del popolo ebraico in Europa; le vittime di questo immane olocausto sono calcolate in oltre 6 milioni di persone, la gran parte di loro morta nei campi di sterminio.

    5. GENOCIDIO DEI POPOLI DELL'INDONESIA

    Nel periodo 1965/67, quasi un milione di comunisti indonesiani sono stati deliberatamente eliminati dalle forze governative indonesiane, mentre tra il 1974 e il 1999 sono stati eliminate da gruppi paramilitari filo-indonesiani 250 mila persone della popolazione di Timor-Est.

    6. GENOCIDIO DEL POPOLO CAMBOGIANO

    Un milione di cambogiani sono morti in soli quattro anni, tra il 1975 e il 1979, sotto il regime di terrore instaurato dai Khmer rossi di Pol Pot.

    7. GENOCIDIO DEL POPOLO SUDANESE

    Si stima che un milione e novecentomila cristiani e animisti siano morti a causa del blocco imposto dal governo di Khartum all'arrivo degli aiuti umanitari destinati al Sudan meridionale.

    8. GENOCIDIO DEI POPOLI DEL RWANDA E DEL BURUNDI

    Dal 94 ad oggi, 800 mila civili ruandesi sono stati massacrati nel conflitto scoppiato tra hutu e tutsi; un'analoga cifra è stimata per le vittime del vicino Burundi.

    9. GENOCIDIO DEI POPOLI DELL'AMERICA LATINA

    Dalla Rivoluzione messicana, ai "desaparecidos" delle dittature militari degli ultimi decenni del XX secolo, sono oltre un milione le vittime innocenti della violenza di Stato dei regimi sudamericani.

    Inoltre solo in Amazzonia si calcola che quasi 800 mila indios sono morti in un secolo, per le angherie e i soprusi subiti.

    10. GENOCIDIO DEL POPOLO IRACHENO

    Un organismo dell'ONU ha stimato nel 1998 in un milione di morti, tra cui 560 mila bambini, gli iracheni morti a causa dell'embargo internazionale e della politica di Saddam Hussein , in collaborazione con gli Stati Uniti d'America e l'ONU!

     

    Non si hanno a tutt'oggi cifre sicure sulle vittime dei genocidi e delle "pulizie etniche" compiute nella ex-Yugoslavia, in Liberia, Sierra Leone, Angola, Congo, Libano, Corea del Nord, Sri Lanka, Haiti, Tibet ... e l'elenco purtroppo si allunga ogni anno di più!

    Era il 6 aprile 1994 quando il Presidente del Ruanda, Juvenal Habyarimana e del Burundi Cyprien Ntaryamira, venivano uccisi in un attentato aereo, mentre stavano atterrando all’aeroporto di Kigali. Da lì è partito il genocidio tutsi che ha portato a centinaia di migliaia di morti e negli anni a seguire al rientro di almeno 500’000 profughi dall’ex Zaire e dalla Tanzania. Prima, durante e dopo questi fatti la responsabilità del Nord, dell’ONU e della comunità tutta è stata grande. Ci si rendeva conto di quanto succedeva, di massacri tra persone della stessa terra, fomentati da mezzi di comunicazione, ma senza una precisa idea su come intervenire o forse senza la volontà di farlo. Addirittura sono state richiamate le forze ONU presenti durante i fatti stessi.

    Nel 1994, in Rwanda, non si è consumato solo il terzo genocidio del XX secolo. Dietro ai corpi di uomini, donne e bambini dilaniati dai colpi di machete, accatastati lungo le strade rosse e polverose, sparsi sui pavimenti di chiese e scuole, galleggianti nelle acque dei fiumi e dei laghi del ‘paese delle Mille Colline’, c’è molto di più. Un messaggio, un grido di sdegno sale dalle foto e dai filmati che documentano (a dire la verità solo in minima parte) l’ennesimo orrore africano, le indescrivibili sofferenze patite da oltre un milione di vittime ignorate prima e dimenticate poi dal compassionevole mondo “civilizzato”, se così si può definire un Occidente da sempre più attento ai propri interessi economici che alle conseguenze delle proprie dissennate scelte politiche.

    Testimoniare l’IndicibileIntervista a Isabella Sandri. Spinta dal disinteresse e dall’ignoranza dei media occidentali sulla questione ruandese, Isabella Sandri ha deciso di documentare la vicenda dei rifugiati – soprattutto donne – e dei sopravvissuti di uno dei più orribili genocidi della storia umana. Una testimonianza che ci tiene a qualificare come ‘genuina’, senza alcun intento storiografico o propriamente documentaristico o addirittura politico.

     In un fazzoletto di terra grande quanto la Toscana, in qualche anno, era sgorgato il sangue di milioni di morti. Da qui comincia il viaggio della Sandri e la sua testimonianza su ciò che è accaduto in Rwanda, nella regione dei Grandi Laghi e nel Burundi.

    Jura Gentium – Parlare di «due genocidi» significa tentare di rendere più complessa la lettura di quella storia, di uscire da un’interpretazione unilineare che, ancora una volta, divide i buoni e i cattivi, le vittime e i carnefici. Quanto è importante questo atteggiamento?


    Isabella Sandri – Nessuno parlava delle centinaia di hutu morti ammazzati nell’ex-Zaire. Era la grande vergogna delle organizzazioni umanitarie che si sono mosse con grande ritardo. Poi l’Onu ha ammesso di avere sbagliato. Si riteneva che questi profughi fossero tutti colpevoli. Erano hutu scappati dopo il genocidio del ’94, ‘Sono tutti degli assassini’, pensava l’opinione mondiale. Non erano particolarmente amati questi hutu in fuga. Erano un argomento imbarazzante. ‘Sono tutti coinvolti nel genocidio ai danni dei tutsi’. Era su questo ‘tutti’ che secondo me bisognava ragionare, e anche – soprattutto – su questa specie di ‘applicazione’ della pena di morte. Indistinta. ‘Sono tutti colpevoli perciò devono tutti morire’. In mezzo a loro c’erano bambini che nel ’94 non erano ancora nati, o che sicuramente non potevano reggere un machete, neanche a tre, quattro anni. Ma in quanto figli di probabili assassini dovevano morire.

    E comunque, anche se tra di loro ci fossero stati dei carnefici, degli Interahamwe (e ce n’erano, sicuramente) erano proprio loro che terrorizzavano le persone in fuga (della loro stessa ‘razza’!) e detenevano il potere nei campi. Questi profughi subivano sicuramente il peso della colpa che avevano commesso (penso lo subissero, da come parlavano e si comportavano…), subivano gli attacchi della loro stessa gente (gli Interahamwe, cioè gli hutu estremisti) e l’odio dei soldati sia zairesi che i mercenari assoldati dai vari governi per destabilizzare la regione.

    JG – Lei ha cercato di comunicare questo spirito alle persone che ha intervistato?

    IS – L’atteggiamento che ho quando parlo con dei testimoni è di assoluta ricettività. Offro lo spazio perché le parole possano essere registrate, filmate, riportate. Sono lì per loro. Sono un foglio di carta bianca, un recipiente concavo, occhi e orecchie a loro totale disposizione. Ho visto davanti a me persone che non capivano che cosa era successo loro, rese imbecilli dalla fame e dalla paura, malate, distrutte, terrorizzate, che tornavano alla Petite Barrière a Gisengy, dopo essere scappate per migliaia di chilometri in fuga, dai campi profughi, gli stessi campi che dovevano dare loro protezione. Non dimentichiamo gli assassini della mattanza dell’aprile-maggio ’94 erano tutti hutu, la grande maggioranza della popolazione (perché altrimenti, come sarebbero riusciti a fare così tanti morti in così poco tempo?), donne bambini e perfino religiosi. Ma sono stati uccisi anche molti hutu moderati perché, come ormai sappiamo, non è stato un genocidio etnico ma uno scontro per accaparrarsi il potere e quindi gli hutu moderati erano scomodi, erano dei nemici. Sono stati i primi a essere uccisi. L’etnia è stata solo un pretesto.

    JG – Gli spiriti delle mille colline è strutturato quasi interamente intorno alle interviste. Quanto è importante la testimonianza diretta per raccontare quella vicenda? Ha mai avuto l’impressione che non fosse possibile raccontare tutto da parte delle vittime, come in altre vicende storiche legate a genocidi o per esempio nell’olocausto degli ebrei?

    IS – È strutturato sulle interviste perché era importante che i testimoni potessero parlare e dire quello che era loro successo. E cioè che erano stati dimenticati. Che l’opinione internazionale se ne era lavata le mani. Erano degli indifendibili. E se c’era stata la follia della mattanza dei cento giorni del ’94, c’era anche stata la follia diluita nell’arco di tre anni – dal ’94 al ’97 – ai danni di questi ‘indifendibili’.

    Credo sia assolutamente impossibile ‘tradurre’, trasmettere il dolore, la violenza e la paura che si provano quando si è vittime, a chi è comodamente seduto in un angolo tranquillo del ‘primo mondo’. È un altro linguaggio quello che si usa per testimoniare. Sono parole e volti. È un linguaggio solo visivo e orale. Non è la paura e non è il dolore (come possiamo immaginarli se non li proviamo?). Ma non per questo è inutile. Anzi, credo che sempre e comunque sia necessario, perché anche se a fronte di centinaia di migliaia di ore di documentari, interviste, articoli di giornali, servizi televisivi, libri, opere teatrali e tutto quello che a noi del ‘primo mondo’ può venire in mente, anche se alla fine – dicevo – si riuscisse solo a sfiorare con piccole dita la parete di qualche anima, bene: quello ‘sfiorare’ già sarebbe un risultato per cui vale la pena lavorare.

    JG – Nel documentario ha deciso di non insistere molto sulle origini storiche della frattura sociale in Rwanda, sulle cause e sulla storia coloniale del paese. Lo stesso per quanto riguarda le responsabilità dirette e indirette dei paesi occidentali. Ha avuto l’impressione che non fosse un argomento così importante per comprendere i due genocidi?

    IS – No, no. Non sono una giornalista, né una politologa. Per me era urgente incontrare questi ‘testimoni’ scampati allo sterminio nell’ex-Zaire, e che sicuramente avevano qualcosa da dire, che potevano raccontare quello che era loro successo. Certo, sarebbe importante fare luce sugli interessi internazionali di tutte le potenze coinvolte, e i conflitti che nascono per la spartizione delle ricchezze nell’ex-Congo (i diamanti, i minerali, non ultimo il ‘coltan’, utilizzato nell’industria della telefonia mobile) e nella regione dei Grandi Laghi, una spartizione tra le potenze colonialiste anglofone e francofone (Francia, Belgio, Stati Uniti). Tuttavia, mi spiace doverlo dire, ma questi profughi erano negli ultimi scalini della gerarchia sociale ed erano all’oscuro (purtroppo non essendo passati per i laboratori gramsciani, e avendo perso la grande occasione di Lumumba) di queste problematiche così chiare allo spettatore del ‘primo mondo’. Erano sorpresi, stupefatti, attoniti e stremati. L’unica cosa che chiedevano era un po’ di cibo o una coperta. Assassini compresi. Per rispondere a queste domande avrei dovuto fare un altro tipo di documentario. Come si dice: ‘Non è nelle mie corde’. Ma se qualcuno lo volesse realizzare sarei ben contenta di vederlo. Questa sua esigenza più che legittima di informazione nasce da un vuoto mediatico che solo in questi ultimi anni si sta colmando.

    JG – La maggior parte delle intervistate sono donne. Perché è importante una testimonianza ‘di genere’ nell’orrore dei genocidi? Quale ruolo hanno avuto le donne, non solo in quanto vittime, ma anche in quanto ‘carnefici’, in quanto esecutrici o sostenitrici della violenza nei genocidi?

    IS – Purtroppo in questo caso si può parlare di parità tra i sessi. Sono colpevoli le donne quanto gli uomini degli assassini del ’94. Per quanto riguarda i profughi hutu, non so se tra i capi estremisti Interahamwe, ci sono o c’erano delle donne. Ho come l’impressione (ma è solo un’impressione, per carità) che in queste lotte di potere, che hanno pilotato le mattanze, le donne non ci siano più. Ma come vittime le donne ci sono sempre, sia da una parte che dall’altra, sia tra i tutsi che tra gli hutu. Inoltre potrei rispondere a mia volta con una domanda: «Perché un regista nero fa film sui neri»? Poiché sono una donna mi è venuto naturale parlare con le donne («woman is the nigger of the world»), così come per un governo fatto di uomini è normale eleggere un parlamento quasi completamente di uomini, così come chiese, religioni, confessioni fatte principalmente dagli uomini creano e nominano uomini e non donne come loro capi spirituali. Così¼ Perché viene loro naturale. E anche a me è venuto naturale. Anzi, adesso che qualcuno me lo dice me ne accorgo, altrimenti neanche me ne accorgevo.

    JG – Quanto tempo ha impiegato per la preparazione e la realizzazione delle interviste? Quali condizioni di lavoro ha trovato in Rwanda?

    IS – Sono rimasta in Rwanda per più di un mese. La troupe era ridottissima nel senso che ero da sola. Ho fatto anche le riprese e il suono. Ero invisibile e non creavo problemi perché ero quasi trasparente (sola e donna…). I soldati mi degnavano sì e no di uno sguardo. Sono state per me ottime condizioni di lavoro. Avevo un interprete hutu (anzi metà hutu e metà belga. La madre hutu – ovviamente – e il padre belga) che all’inizio trattava male le donne hutu che stavano rimpatriando perché le considerava di rango inferiore al suo (lui era mezzo bianco!) e comunque delle ignoranti incapaci di pensieri ed emozioni. In più erano delle donne. È stata la cosa più difficile, quella di costringerlo a tradurre tutto e non tralasciare le sfumature dei discorsi. E a pregarlo di essere più gentile con queste donne (e bambine) che avevano sofferto così tanto.

     

    Intervista a cura di Filippo Del Lucchese

    Marzo 2005

    colori

    quanti colori

    sulla tela dell'anima mia.....

    in vortice mischiati e su di essa gettati

    con l'ordine del caos....

    un dipinto astratto....immateriale

    che parla di sè, al mondo e a se stesso...

    quanti colori 

    sulla tela dell'anima mia

    illuminano ed oscurano  il volto delle mie emozioni.

     

                        by Logicamente3ndi      


    Il genocidio in Ruanda del 1994 fu uno dei piu' sanguinosi episodi della storia del XX secolo. Dove, per l'ennesima volta, il colpevole disinteresse del mondo ha permesso e contribuito al verificarsi dei tragici eventi. Dal 6 aprile 1994 al 16 luglio 1994 vennero MASSACRATE sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati) tra 800.000 e 1.100.000 persone (Uomini, Donne e Bambini).

     

    Le vittime sono state in massima parte di etnia Tutsi, che costituisce una minoranza rispetto agli Hutu, a cui facevano capo i due gruppi paramilitari principalmente responsabili dell'eccidio, Interahamwe e Impuzamugambi.
    I massacri non risparmiarono neanche una larga parte di Hutu moderati, soprattutto personaggi politici.

    Le divisioni etniche del paese sono state opera principalmente del dominio coloniale europeo, prima tedesco e poi belga, che inizio' a dividere le persone con l'introduzione della carta d'identita' etnica e favorire quelli che consideravano piu' ricchi e di diversa origine: i Tutsi.
    In realta' Tutsi e Hutu fanno parte dello stesso ceppo etnico culturale Bantu e parlano la stessa lingua.
    Il genocidio termino' col rovesciamento del governo Hutu e la presa del potere, nel luglio del 1994, dell'FPR, il Fronte Patriottico Ruandese.

    Il 22 giugno Francia, Gran Bretagna e Belgio inviarono truppe (la tristemente famosa operazione turquoise) per la protezione e l'evacuazione dei PROPRI cittadini. Salvati gli europei, la comunita' internazionale e l'ONU abbandonarono i ruandesi alla furia dei machete, mentre discutevano se si trattasse o meno di genocidio. L'intervento venne pero' utilizzato dagli autori dei massacri per proteggere la propria fuga dal paese.

    La storia del Ruanda (e del resto del mondo colpevolmente assente) fu segnata inesorabilmente da questo genocidio del 1994: si calcola che circa 1 MILIONE di persone vennero massacrate da estremisti Hutu e dalle milizie Interhamwe fedeli al presidente Juvenal Habyarimana.
    Su una popolazione di 7.300.000, di cui l'84 % Hutu, il 15 % Tutsi e l'1 % Twa, le cifre ufficiali diffuse dal governo ruandese parlano di 1.174.000 persone uccise in soli 100 giorni (10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto).

     


     


    Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana

    G. Augustin
    36 anni, resistente di Bisesero (Kibuye)

    A.G. – Le donne e i bambini raccoglievano i sassi e gli uomini combattevano con gli assassini. Abbiamo cercato di andare sulle colline. C’erano dei camion e dei bus pieni di miliziani e di persone, provenienti da varie zone, che si erano unite a loro. Bisesero è diventato un campo di battaglia. Ci siamo raggruppati sulla collina di Muyira. Gli assassini l’hanno circondata. Hanno cominciato il loro lavoro. I morti erano numerosi, Muyira era coperta di cadaveri di donne, di uomini e di bambini. Siamo stati attaccati tutti i giorni fino all’arrivo dei Francesi. Non eravamo più in molti ed eravamo indeboliti dalla fame, dalle ferite e dal dolore.
    Y. M. – I Francesi vi hanno aiutato?
    A.G. – I soldati francesi? Sono venuti a dare man forte agli autori del genocidio! È tutto. Ci hanno disarmato, hanno combattuto il FPR, ci sono stati persino dei morti tra loro. Ho visto il cadavere di un soldato francese. Per me, i Francesi sono venuti a sostenere il genocidio.

    Y.M. – Non pensi di esagerare un po’?
    A.G. – Per niente. I Francesi, nella loro logica di sostegno al governo genocida, ci vedevano come dei nemici. Hanno permesso agli artefici del genocidio di fuggire in Zaire. Per me, i Francesi sono degli assassini.
    Y.M. – Per te è importate testimoniare?
    A.G. – Il nostro dolore non impedisce al mondo di dormire. Ma ci resta solo la parola. Abbiamo perso tutto, tranne la nostra lingua. Allora, che altro possiamo fare se non testimoniare? Oggi, alla Francia non piace il governo ruandese, quello che ha fermato il genocidio. E per questo non ascolta la nostra testimonianza, non vuole sapere. Ma noi superstiti non siamo il governo ruandese. È come se noi dicessimo che ogni Francese è colpevole del genocidio dei Tutsi. È assurdo. È la Francia che è colpevole di complicità di genocidio, non i Francesi. La Francia discredita il Ruanda di oggi agli occhi del mondo.




     


    T. Laetitia
    30 anni, superstite, Kigali

    L.T. – Il 7 aprile, abbiamo dato dei soldi a dei militari per negoziare la nostra salvezza. Il 9 aprile 1994, abbiamo cercato rifugio alla Scuola tecnica officiale. Era piena, i Caschi blu la proteggevano. Ma dopo quattro giorni, il generale R è venuto a discutere con loro e hanno fatto i bagagli e ci hanno abbandonato. Subito dopo la loro partenza, delle granate sono cadute tra la folla, lanciate dalla pista dai miliziani. Siamo scappati disperdendoci nelle strade, con la vaga idea di rifugiarci allo stadio Amahoro. Ma i miliziani ci hanno circondato. Abbiamo fatto segno ad alcuni veicoli di altri Caschi blu che passavano davanti a noi ma non si sono fermati. È allora che un ufficiale ha dato l’ordine ai miliziani di farci salire sulla collina di Kicukiro e di sopprimerci lassù, in modo da evitare che i nostri cadaveri impestassero Kigali.

    In cima alla collina, abbiamo subito un diluvio di granate, ho visto dei brandelli di carne volare nell’aria. Un’ora e mezza dopo, i miliziani sono entrati nella folla e ci hanno tagliato a pezzi con i machete. Al secondo colpo, sono svenuta. Quando mi sono svegliata, ero completamente nuda. Eravamo forse una decina di superstiti. Ci siamo nascosti nei cespugli. Allora un militare dei FAR è passato vicino a noi. L’abbiamo chiamato e gli abbiamo chiesto di finirci. Ma ha rifiutato. È andato a cercare dell’acqua, poi ci ha indicato una via tramite la quale, venuta la notte, avremmo potuto raggiungere le posizioni del FPR. Così sono stata salvata. Ma dopo il genocidio, ho avuto delle voglie strane. M piaceva mangiare la terra. Ne mangiavo molta e non è molto che ho smesso. Mi piaceva anche il gusto della polvere.
    Y.M. – E che speranza hai oggi?
    L.T. (sorridendo) – Non ho speranza. Non posso stare molto al sole, altrimenti svengo. Mi basterebbe una piccola somma di denaro per aprire un piccolo commercio, ma so che non l’avrò mai.
    Y.M. – Quanto?
    L.T. – 150.000 franchi ruandesi. (L’equivalente di 15.000 franchi belgi, 600.000 Lire).
     
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